
Parigi, 13 giugno 1976. Adriano Panatta alza le braccia al cielo, sfinito, con il sudore incollato alla maglia e la racchetta lanciata per aria come un pensiero liberato. Il Roland Garros è suo. È dell’Italia. In un pomeriggio rovente, fisicamente e simbolicamente, si compie il capolavoro che mancava da troppo tempo: Panatta batte Harold Solomon in quattro set (6-1, 6-4, 4-6, 7-6) e conquista il trofeo più prestigioso della sua carriera. Un’impresa leggendaria. Adriano non è solo il primo italiano dell’Era Open a riuscirci, ma è anche il primo a realizzare la doppietta Roma-Parigi nello stesso anno, impresa che nemmeno Nicola Pietrangeli era riuscito a firmare.
Panatta re di Parigi dopo la vittoria su Solomon
Il match contro Solomon non è stato il più brillante della carriera di Panatta, ma è stato il più emblematico. Ha vinto senza essere al massimo, lottando nel campo dell’avversario, scegliendo di giocare sullo scambio, sul fondo, sull’usura. È stato più uomo che genio, più maratoneta che artista. Per questo la vittoria ha avuto un peso ancora più profondo. «Quando mi ha ripreso da 5-2 a 5 pari nel quarto set - dirà dopo - ho pensato fosse finita». Ma non lo era. Perché il talento si esprime anche nella resilienza. E Panatta ha saputo soffrire, aspettare, colpire. Fino al tie-break, giocato con una classe che solo i grandi hanno nei momenti più tesi. La volée sbagliata di Solomon che consegna il match all’Italia è il simbolo di un equilibrio spezzato. Adriano crolla a terra, si rialza, lancia la racchetta, abbraccia la moglie Rosaria. I tifosi lo portano in trionfo. La terra rossa francese, per un giorno, profuma d’Italia.
Adriano un'icona dell'Italia e dello sport azzurro
Panatta non è stato solo un campione. È stato un’icona. Con la camicia sbottonata, il completo firmato, lo sguardo da divo e il diritto fulminante. Ha portato carisma in un tennis ancora educato, ha messo estro dove c’era solo disciplina, ha regalato leggerezza dove dominava l’ossessione della forma. Quel 13 giugno non è stato solo un trionfo sportivo, è stata un’esplosione culturale. L’Italia si è vista bella, moderna, competitiva. Ha scoperto che si può vincere anche senza rinunciare al sorriso. Adriano entra nell’Olimpo con i grandi: Rose, Nastase, Borg. Ma con qualcosa in più. Perché a differenza di loro, lui non è stato mai seriale. È stato unico, sorprendente, umano. Come quella finale vinta con il cuore, prima ancora che con il braccio.